
28 TFF: Frammenti di altra quotidianità
di autori vari
Quando i gabbiani sono giovani e neri
Se Dante fosse nostro contemporaneo avrebbe certamente inserito tra i gironi dell’inferno quello dell’immondizia. Troppo facile - per i bene informati - immaginare quali tra le tante teste incravattate del bel paese avrebbe condannato al supplizio eterno: cibarsi della spazzatura delle famiglie che hanno contribuito ad avvelenare. Nell’amarezza di questi tempi non ci resta che la fantasia come succedaneo della giustizia.
È con immagini choc che Frammenti di altra quotidianità, presentato fuori concorso al 28 TFF, ci mostra che questo girone esiste. Si trova alla periferia di Maputo, in Mozambico. I dannati, tutti giovanissimi, espiano qui una colpa più sottile; sono nati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Troppo spesso la realtà supera in gravità l’immaginazione.
Passeggiate interminabili tra dune di rifiuti; ragazzi che rincorrono camion della spazzatura come fossero supermercati ambulanti. Bambini vestiti di stracci che aprono buste cariche di bucce di patate e carne in putrefazione: delicate prelibatezze ai loro occhi. Un lavoro che noi riserviamo ai gatti e ai gabbiani. Sono solo alcune delle immagini che accompagnano lo spettatore in un quotidiano sconcertante, ammesso che ancora sia possibile sconcertare lo spettatore medio.
Il dispositivo stilistico che rende questo documentario di rara potenza risiede nell’aver lasciato le videocamere ai ragazzi con il compito di girare e testimoniare in immagini la loro stessa vita quotidiana. Il film costituisce il frutto di un laboratorio di foto e video digitali promosso dalla onlus Basilicata/Mozambico di Matera «Padre Prosperino Gallipoli» a Mundzuku Ka Yina, nel barrio di Hulene a Maputo. Un lavoro di immenso valore se si considera che alcuni dei giovani filmaker sono appena alfabetizzati, se non del tutto analfabeti. Gli organizzatori hanno presentato il documentario con evidente emozione e sono stati accolti da lunghi e sinceri applausi.
Le videocamere sono prestate ai ragazzi come penne per svolgere un tema elementare: descrivere la propria vita. L’intero film lascia l’audio grezzo delle riprese: un misto di slang shangan con accenni di portoghese pressoché incomprensibili, intervallati dal rumore sordo del vento che batte incessante sul microfono. Il tutto senza l’ausilio di sottotitoli; in un’ora di film mai se ne sente la mancanza. Quei pochi dialoghi si esprimono per evidenza. Il linguaggio non è mai informativo. Sta tra i corpi come una forma di contatto, di condivisione; sfugge alla logica.
Con difficoltà si osservano quei corpi, belli e dannati, coperti di stracci sporchi. Quasi rifiuti viventi essi stessi. Stride agli occhi europei il racconto di esistenze spezzate che si sfaldano come gesso su una lavagna di carta vetrata. Il tempo è sospeso, proprio come nei gironi dell’inferno. Si assiste ad un presente che si ripete ciclicamente in una spirale di miseria. Vi si assiste impotenti.
Ci si chiede dove finiscano i bei discorsi pronunciati alla FAO o dall’OMS. Che fine fanno i fondi stanziati per le emergenze alimentari? L’unica certezza è che viviamo in un mondo squilibrato. In nessun momento del film si percepiscono residui di natura. Tutto è già stato spolpato da qualcun’altro, compreso questo sventurato continente africano. L’unica luce ci arriva nei minuti conclusivi. Una danza tecno trascende i ragazzi. Ci offrono uno spettacolo di movimenti ed espressioni di una vitalità inedita tra i nostri adolescenti. Sintomo che la vita pulsa al doppio della velocità quando la si guadagna con fatica. Una consolazione che non basta a redimere queste immagini che resteranno a testimonianza dell’ingiuria.
Riccardo Centola | 28. Torino Film Festival


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